Giusy Panassidi, ennese di nascita e torinese di adozione, impiegata  nella Pubblica Amministrazione, moglie, mamma di due figli e da poco nonna del piccolo Enea. Più che scrittrice lei si definisce una “contastorie” poiché è con le storie ed i racconti che le sono stati narrati sin da bambina dal suo adorato nonno, con la dialettica pirandelliana e con la sua fervida fantasia, che è stata contagiata irrimediabilmente alla scrittura. Divoratrice di libri di ogni genere, amante del mare e di vulcani, appena può si rifugia sulla sua isola del cuore, Vulcano, dove ritrova il contatto con tutti gli elementi della natura traendone ispirazione per i suoi racconti. Il primo libro con cui si è fatta conoscere dai lettori è stata una raccolta di tredici racconti dal titolo “La Culofia: Paure e Pregiudizi” riscuotendo un notevole successo; ciò l’ha incoraggiata a continuare in quella che era iniziata un po come una sfida con se stessa. Con l’opera I Carusi della Solfara: Vergogna e Schiavitù Giusy Panassidi si è calata completamente nel ruolo, visitando personalmente i luoghi dove si è consumato tra la fine del ‘800 e metà del ‘900 uno dei capitoli di storia più cupi del nostro Paese.Ha ascoltato moltissime testimonianze dirette dai familiari delle vittime di quello che ha definito “l’olocausto degli indifesi”, rimanendo spesso senza fiato e senza parole per quanto accaduto ignobilmente nella sua Sicilia. I Carusi della Solfara: Vergogna e Schiavitù è un racconto cui Giusy Panassidi è molto legata, scritto in quanto fermamente convinta che solo attraverso la conoscenza dei fatti e tramandandone la memoria, senza paure, pregiudizi e vergogna, si possa trarre dagli errori del passato un insegnamento per un futuro migliore


I libri e la dedica di Giusy

Al mio adorato nonno, che con i suoi racconti e i suoi insegnamenti mi ha permesso di essere la bambina e poi la donna che oggi sono a Mariuccia, Marisa, Emilia, Teresa e a tutte quelle persone che, con nomi inventati, mi hanno permesso di raccontare un pezzo della mia adorata bella isola

 

I carusi della solfara – vergogna e schiavitù

Filippo, il protagonista di questo racconto, è un uomo che ha oltrepassato la novantina, da circa due anni si è trasferito nella casa di riposo del paesino dell’entroterra siciliano dove è nato ed è sopravvissuto per vent’anni. Proprio così “sopravvissuto”, ma non alla guerra, quella che tutti conoscono o ricordano: lui ha combattuto una guerra fatta di armi diverse, ma non per questo meno orribile e drammatica, costata la vita a migliaia di esseri umani tra cui tantissimi bambini siciliani indifesi ricordati da molti come i “carusi della solfara” che sono morti in quei campi di concentramento chiamate miniere. Filippo è stato ed è rimasto ancora oggi, per i segni che porta nel corpo e nell’anima, una vittima di quello sterminio, ma la sorte lo ha voluto risparmiare, malgrado molte volte nella sua disperata solitudine avesse desiderato “la morte” come liberazione, sopravvisse a  quell’olocausto riuscendo dopo molti anni a fuggire lontano dall’inferno della miniera. La febbre dell’oro giallo favorì l’arricchirsi di persone senza scrupoli che trovarono terreno fertile nelle famiglie siciliane povere e prive di istruzione, sotto gli occhi consenzienti di autorità governative locali, regionali e nazionali che avevano grossi interessi a non smantellare questo status di ricchezza. Così facendo, oltre a contribuire all’impoverimento nostro come popolo, scrissero uno dei capitoli di storia più brutti e vergognosi del nostro Paese. Filippo resterà segnato per sempre dal ricordo di quel terribile periodo trascorso tra violenze e schiavitù inflitte ai carusi della solfara, “colpevoli” di essere nati in quella ricca terra con  la disgrazia di avere un “corpo piccolo” utile  per estrarre nel minor tempo e costo quell’oro chiamato zolfo. Quel prezioso minerale che avrebbe dovuto fare la ricchezza del nostro popolo, servì invece ad arricchire altre nazioni, lasciandoci con le tasche vuote e impoveriti nel corpo e nell’anima. Filippo varca il cancello di una miniera per la prima volta nella sua vita a soli dieci anni e vi resterà schiavo per altrettanti anni. Nonostante maturi ogni giorno sempre di più la voglia di fuggire, rimarrà tutto quel tempo solo per proteggere i suoi due fratelli più piccoli, ma la miniera è imprevedibile, basta un nulla e la vita è perduta: la sorte di quei bambini non interessava a nessuno! Durante i dieci anni vissuti in quell’inferno Filippo conosce la peggior specie umana, subisce e assiste a violenze morali, fisiche e anche  sessuali. Per questo motivo, Filippo dovrà diventare forte è l’unica possibilità che ha per rimanere vivo e riconquistare la libertà perduta, poiché capisce che solo gli individui più forti potranno resistere, come in natura tra gli animali. In quelle miniere di zolfo, perché furono più di una, svaniscono i suoi sogni di migliorarsi socialmente,  lui che aveva appena cominciato ad andare a scuola quando quel maledetto giorno il “reclutatore di bambini” arrivò in paese per rubargli, oltre alla libertà, anche il suo futuro. Quella mattina però dei colpi di mortaio sparati a festa annunciano in quella casa di riposo un miracolo per Filippo che conoscerà Lorenzo, un bambino del paese…

La culofia – paure e pregiudizi

Il racconto “La Culofia: Paure e Pregiudizi” rappresenta in qualche modo le nostre paure e i nostri pregiudizi. Per anni da bambina ho pensato che “la Culofia” fosse una parola inventata dagli adulti per tenerci lontano dai pericoli di un  pozzo di campagna.  Poi un giorno per puro caso scopro che  la “Culofia” esiste realmente in natura ed  è un piccolo serpentello  che vive nelle acque stagnanti che si nutre di insetti e improvvisamente crollano tante  mie paure e piano piano riafforano nella mia mente dei ricordi legati alla  mia  infanzia trascorsa felicemente in un paesino dell’entroterra siciliano che pensavo di aver  rimosso e quasi per gioco inizio a scrivere questi racconti nella speranza che parlandone possono farci superare paure e pregiudizi. Alcuni racconti mi sono stati narrati da bambina dal mio amato nonno che con la sua fervida fantasia e quella dialettica quasi pirandelliana, nelle serate trascorse con lui, noi bambine lo ascoltavamo per ore e i suoi racconti stranamente non avevano mai lo stesso finale e questa era la cosa più bella perchè ogni volta era come ascoltarla per la prima volta dato che il finale non era mai lo stesso. Gli altri racconti invece li ho sentiti raccontare da altre persone o le ho vissuti direttamente in quei diciotto anni che ho abitato in quella piccola cittadina di montagna dell’entroterra siciliano dove ci si conosceva tutti o perlomeno così ci sembrava, che di paure e pregiudizi ne custodiva tanti. I tredici racconti parlano appunto di paure e pregiudizi come l’omosessualità o delle credenze popolari dove c’era  la parte buona ma anche la parte malvagia dell’occulto. Parlo della morte vissuta con naturalezza con gli occhi di una bambina e poi di adolescente, gli anziani ci educavano sin da piccoli a non aver paura della morte poichè anch’essa è parte della vita, che a tutto può esserci rimedio tranne ad essa a cui però non bisogna mai farsi trovare impreparati. Parlo anche delle violenze sessuali subite dalle donne che per paura di essere giudicate o additate  saranno costrette a non parlarne mai con nessuno e delle grosse  rinunce che si faranno per paura di affrontare il giudizio dei paesani pagandone caramente il prezzo. Due racconti divertenti e teatrali invece rappresentano la nostra bella “sicilianità” e di come due fatti drammatici si possono trasformare in  tragicomica. Infine parlo dei giochi e della spensieratezza di noi bambini e poi fanciulli che crescono sino a diventare adulti in fretta, anni meravigliosi che ci hanno fatto crescere e diventare il “Siciliano” che ognuno di noi porta dentro e fuori…..nel bene e nel male